Il lungometraggio La pecora nera si presenta allo spettatore come un viaggio nelle memorie di chi ha vissuto il manicomio, un viaggio compiuto attraverso una fervida immaginazione e tuttavia mediato dalla concretezza di paure che appaiono insormontabili. E’ la storia di un bambino orfano, Nicola, che entra in manicomio perché dice di aver visto i “marziani”. Un bambino che rimarrà trent’anni nella struttura e che ricorda, da protagonista, il suo trascorso alternando realtà e fantasia, comicità e tragicità. Nicola, attualmente trentacinquenne, vive ancora nell’ospedale psichiatrico ed è del tutto dimenticato dai parenti, ognuno occupato dai propri problemi. Ogni giorno è scandito da semplici attività: la spesa al supermercato con una suora, sempre accompagnato dal suo amico immaginario, dove incontra Marinella, la ragazza di cui è innamorato. Per lo strampalato ragazzo, capace di riflessioni imprevedibilmente lucide, il manicomio è come un condominio, un “condominio di santi dove il dottore è il più santo di tutti ed è come Gesù Cristo” [cit.]. L’infanzia parca di sentimenti caratterizza ulteriormente il profilo del protagonista, un uomo che cerca la “normalità” attraverso il filtro del suo mondo, ma che trova una realtà che si blocca ai cancelli del manicomio, un ostacolo più psicologico che fisico, causato dal terrore di non riuscire e dalla paura che Nicola pare suscitare negli altri, specialmente in Marinella, la compagna di scuola mai dimenticata che nutre per lui un sentimento unico e duplice di orrore e tenerezza, compassione e paura.
Riguardo la sua opera prima, il regista commenta: “Raccolgo memorie di chi ha conosciuto il manicomio un po’ come facevano i geografi del passato. Questi antichi scienziati chiedevano ai marinai di raccontargli com’era fatta un’isola, chiedevano a un commerciante di spezie o di tappeti com’era una strada verso l’Oriente o attraverso l’Africa. Dai racconti che ascoltavano cercavano di disegnare delle carte geografiche. Ne venivano fuori carte che spesso erano inesatte, ma erano anche piene dello sguardo di chi i luoghi li aveva conosciuti attraversandoli. Così io ascolto le storie di chi ha viaggiato attraverso il manicomio.”
Il lungometraggio di Celestini, al contrario del libro, forse non riesce a mantenere la forza d’impatto dei monologhi del protagonista, in parte perdendosi nella voce narrante che fa da sottofondo: la crisi psicologica, la tragedia, la sofferenza che si sviluppa nella mente di Nicola non esce nella sua totalità, smarrendo così la litania della ripetizione dei pensieri come simbolo del delirio mentale del protagonista. Nonostante questo, il film mantiene l’impronta d’accusa che il regista stesso ha voluto per il suo libro, perpetrando la causa dell’abbandono e dell’emarginazione del “diverso”.
Emiliano Tarquini
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